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Associazione Happy Bridge: sostenere e prevenire la detenzione: Intervista al presidente Dottoressa Maria Teresa Caccavale

maria teresa caccavalle 1Un’associazione di volontariato che attraverso la promozione di varie attività cerca di creare un ponte tra il carcere ed il mondo esterno per far si che ci siano sempre minori distanze tra il mondo dei cosiddetti “normali” e quello delle fragilità.

Maria Teresa Caccavale, Presidente dell’Associazione Happy Bridge, è stata docente di economia aziendale nel carcere di Rebibbia per 27 anni, ma continua ad occuparsi di istruzione degli adulti ed adulti ristretti sia come Ambasciatrice EPALE (piattaforma elettronica per l’educazione degli adulti), sia attraverso l’Associazione Happy Bridge in collaborazione con diversi Enti del terzo settore(UNIPAX, UNITRE, ecc), sostenendo tutte le iniziative a favore dei diritti umani attraverso attività culturali e formative .

Come nasce questa associazione, quali sono gli obiettivi portanti?

L’associazione di volontariato Happy Bridge, nata il 14 Febbraio del 2011, ha come obiettivo quello di promuovere attività che migliorino la vita delle persone detenute e delle loro famiglie.

Le attività che in questi anni svolte, con l’aiuto di diversi volontari, sono di diversa natura , essenzialmente di tipo culturale, perché crediamo che la conoscenza sia una delle armi più potenti contro il crimine e l’illegalità.

Al centro l’assistenza ai detenuti per migliorare le loro condizioni di vita.

Quali sono le attività che questa associazione promuove?

Per precisare ci siamo occupati di creare eventi musicali, laboratori di scrittura, sportelli di ascolto, corsi di yoga, assistenza legale, pratiche di mediazione familiare, laboratori linguistici, corsi di informatica, ecc.

Durante il periodo pandemico purtroppo tutte le attività di volontariato nelle carceri sono state sospese, per cui abbiamo proseguito soltanto con i laboratori di scrittura a distanza ed al sostegno delle persone in detenzione domiciliare per le quali non erano state previste attività di sostegno culturale.

Poi abbiamo pensato di incrementare i progetti di prevenzione, progetti che già in parte erano stati avviati con diverse scuole, proprio per contrastare sia la recidiva che il rischio di finire in carcere.

Il carcere spesso è visto come un luogo a dire il vero negativo, ma in effetti non è e non deve essere cosi, anzi dovrà essere  il  luogo di  principale formazione e rieducazione per chi sconta la pena.

Che significato ha per lei il carcere e cosa si prova quando ci si entra?

Io sono entrata in carcere nel 1991 da docente di economia aziendale per un istituto di istruzione superiore. Fu una casualità e non una scelta, in quanto non conoscevo il carcere e non sapevo neanche che i detenuti avessero accesso all’istruzione. All’inizio fu un po’ scioccante per le numerose porte di accesso, il rumore delle chiavi e la loro grandezza, i muri grigi, gli odori insipidi della cucina ed il fumo di sigarette, la poca igiene degli spazi comuni, ma soprattutto l’andirivieni dei detenuti nei corridoi. Poi, essendo io una persona curiosa ma anche con un occhio molto rivolto al sociale ed in particolare alle fragilità, ho cominciato a cercare di capire come funzionasse realmente il carcere. Allora osservavo tutto quello che succedeva, facendo molte domande sia ai detenuti che agli educatori, agenti, Direttori, diciamo andando oltre il mio ruolo di docente. Dall’ascolto e dall’osservazione avevo già capito che il carcere così come era non riusciva ad assolvere alla sua funzione rieducativa e di reinserimento delle persone detenute, ma che in genere peggiorava le persone perché le teneva in una stato di infantilismo e dipendenza. La scuola rappresentava e rappresenta a tutt’oggi una grande opportunità di crescita personale e culturale, oltre a far diminuire la possibile recidiva dei reati, sebbene con ancora molti limiti per gli accessi e per la mancanza delle tecnologie.

Però devo dire che sicuramente gli anni ’90 sono stati i migliori a mio avviso, era tutto molto più semplice, paradossalmente, ed i rapporti con il personale amministrativo era più semplice e costruttivo, meno burocratico. Poi è andato tutto peggiorando. Tutto ciò mi ha portato nel 2011 a costituire l’Associazione Happy Bridge con 4 mie amiche, tutte professioniste impegnate in diversi settori. Non a caso ricorreva il 14 Febbraio la Festa degli innamorati, e sicuramente era l’amore che ci ha spinte ad intraprendere questo nuovo percorso di volontariato in carcere.

Ultimamente abbiamo assistito anche ad alcune forme di violenze, per esempio quei filmati che hanno fatto il giro del mondo del carcere di Santa Maria Capua Vetere, dove agenti della polizia penitenziaria hanno colpito alcuni detenuti.

Cosa ha provato nel vedere questo e cosa secondo lei bisognerebbe fare per evitare un evento simile?

Purtroppo o per fortuna direi, gli eventi di Santa Maria Capua Vetere non mi hanno meravigliato, ma certamente dispiaciuto.

La gente comune non sa fino in fondo quali siano state le condizioni dei detenuti nel periodo pandemico, il forte stress per le molte privazioni che hanno dovuto subire, dalla mancanza dei colloqui in presenza, l’assenza di tutte le attività culturali, l’assenza dei volontari, la carenza di informazioni su quello che stava accadendo nel mondo. Almeno all’inizio è stata davvero pesante, tanto che le rivolte lo hanno dimostrato, poi magari le tensioni si sono alleggerite con la concessione delle telefonate via skype, ma la situazione dei contagi ha messo tutti a dura prova. E’ chiaro che in tutto questo, gli agenti sono state le persone più vicine ai detenuti e quindi quelle che hanno subito maggiormente le pressioni, a differenza del personale amministrativo, per cui anche loro hanno perduto il senno. Non voglio giustificare nessuno, perché rifuggo la violenza in ogni caso, ma dico che purtroppo quando si parla di fragilità in carcere mi viene da pensare anche agli agenti di polizia penitenziaria che purtroppo, in gran parte, non sono ben consapevoli del ruolo che svolgono e i danni o benefici che potrebbero apportare nel loro lavoro. Purtroppo anche queste persone vanno ben istruite e supportate psicologicamente perché il loro è un ruolo delicato e importante. Ne ho conosciuti molti fuori di testa, ma anche molti bravi ed umani. Non si può generalizzare, però il sistema va cambiato e gestito diversamente. Il carcere così come è oggi non funziona e non assolve ai dettati costituzionali dell’art.27.

Ci vuole una riforma seria che coinvolga tutti gli interessati, e direi meglio tutta la società, perché il carcere riguarda tutti, non è un istituzione isolata. Ogni uomo, anche il più bravo, può finire in carcere, perché il cervello è una parte molto sottile del nostro corpo, e può scatenare reazioni a volte inconcepibili razionalmente, ma che sono legate alla sfera emozionale e quindi talvolta incontrollabile. La storia ce lo insegna, grandi personaggi che si sono macchiati di crimini  pesanti, molti neanche li conosciamo, ma ci sono. E allora dobbiamo parlare di cura delle persone che sono cadute, per aiutarle a rialzarsi perché ogni vita è importante ed in tutti c’è una parte buona, anzi direi eccellente. Se non si comprende questo non si va da nessuna parte. Spero nella nuova Ministra che ha visioni più elevate rispetto ai suoi predecessori, ma è ovvio che il Ministro da solo non può fare tutto.

 

happy bridge 1

La vostra associazione si occupa anche di prevenire la detenzione, infatti sta promuovendo un importante progetto nelle scuole, “Un pallone per la legalità”.

Di che cosa si tratta e come può una scuola aderire?

Un Pallone per la legalità”, rivolto a tutte le scuole del territorio nazionale, con l’obiettivo di trasmettere ai giovani, valori etici e di educazione civica e legalità, al fine di prevenire atti criminali, di bullismo, di violenza, razzismo, dipendenza da sostanze stupefacenti, azioni che possono segnare in maniera drammatica la vita di tante persone. Il progetto viene svolto con la preziosa partecipazione di Fabrizio Maiello, ex detenuto in OPG di Reggio Emilia, il quale attraverso la sua esperienza e storia di vita in Carcere prima e Ospedale Psichiatrico Giudiziario dopo, ci introduce al complesso e duro mondo della detenzione, ma anche della possibilità di riscatto e cambiamento.

Lo sport, ed in particolare il calcio, fa da veicolo per la trasmissione dei messaggi di legalità, di inclusione, di disciplina e tanto altro.

Per aderire basta mettersi in contatto mail con la nostra associazione associazionehappybridge@protonmail.com

E per quanto riguarda le istituzioni, come si pongono davanti a tanti problemi e cosa si sente di chiedere  in questo momento?

Ho partecipato al memento organizzato da Rita Bernardini, esponente radicale, in occasione del quale ho parlato della scuola e del diritto all’istruzione in carcere, ovvero più scuola= meno carcere.

Oltre alla cultura ed al diritto all’istruzione, mi sento di chiedere appunto una riforma vera della giustizia ed in particolare dell’esecuzione della pena che deve essere umana e giusta. Come già detto il carcere così come è oggi è una macelleria umana, che crea altri criminali. Manca tutta l’attività di reinserimento sociale e lavorativo, oltre alla rieducazione che chiamerei ormai in un altro modo ed attuerei diversamente.

Ci vuole personale preparato e motivato, un dialogo costante con tutti gli operatori territoriali, ecc. ecc.

Non si butta via la chiave per nessuno.

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