Scarcerazione Giovanni Brusca: è il fallimento dello Stato Italiano?
La scarcerazione di Giovanni Brusca ha creato forti polemiche per un boss che ha commesso 150 omicidi, incluso la strage di Capaci, l’uccisione del piccolo Giuseppe Di Matteo - sciolto poi nell’acido.
Non ha avuto l’ergastolo perché ha collaborato con la giustizia e avuto uno sconto di pena, previsto da una serie di leggi che il Parlamento ha approvato fin dal 1991 (inizialmente limitata al reato di sequestro di persona) e poi progressivamente affinato e messo a punto attraverso altri provvedimenti legislativi.
Da un punto di vista morale la scarcerazione è comprensibile che possa suscitare dissenso e disgusto, ma è una strada che lo Stato ha dovuto intraprendere per cercare di sconfiggere fenomeni complessi come la mafia e le altre forme di criminalità organizzata.
Già negli anni di piombo, quando il terrorismo compiva azioni anche più eclatanti e spettacolari rispetto a quelle portate avanti dalla mafia, le istituzioni hanno usato le stesse armi che oggi si utilizzano contro cosa nostra: hanno indotto i terroristi alla collaborazione, per entrare nei meccanismi criminali e distruggerli.
“L’Esperienza del terrorismo ha indubbiamente insegnato diverse cose. La prima legge risale al 1979 (d.l. 15 dicembre 1979, convertito nella legge 6 febbraio 1980, n. 15) e tale intervento legislativo operò un giusto mix tra severità della legge ed incentivi alla collaborazione processuale. Ciò che non deve dimenticarsi è che tale opzione diede subito (all'epoca) risultati brillanti: diverse formazioni armate (di destra e di sinistra) vennero individuate e neutralizzate grazie all'apporto dei pentiti”.
Però, come accade per tutte le cose, anche la collaborazione richiede un prezzo, ovvero lo sconto di pena.
Giovanni Brusca ha collaborato con lo stato italiano per aiutarlo a catturare altri boss, che altrimenti non sarebbero mai stati catturati senza il suo aiuto. A fronte di questo patto, gli sono stati comminati 25 anni di carcere, che ha scontato per intero.
Per 5 anni sarà sottoposto ad un regime controllato, ovvero dovrà recarsi quotidianamente presso le forze dell’ordine e firmare un registro. Dovrà cambiare identità e andare a vivere in un posto diverso rispetto a quello dove ha vissuto.
Ricordiamo che il boss Totò Riina- il capo dei capi - che non mai collaborato con le istituzioni, ha scontato la sua pena in carcere, ed è uscito solo da “morto”.
Approfondiamo il tema con il professore di diritto penale Roberto Zanotti dell’università L.U.M.S.A. di Roma.
Professore, in altri paesi come l’America avvengono le stesse forme di collaborazione con le organizzazioni criminali? Anche se sappiamo che gli Usa hanno mezzi finanziari più importanti e normativi diverse. Cosa ne pensa?
Sì, le forme di collaborazione sono oggi abbastanza diffuse e avvengono anche in altre giurisdizioni. Ritengo che per forme di criminalità particolari, come sono il terrorismo o la criminalità organizzata, la collaborazione dei cosiddetti ‘pentiti’ sia oggi pressoché inevitabile e comunque consente di abbreviare notevolmente le indagini.
La sorella di Falcone ha affermato che questa legge voluta da suo fratello è un pugno nello stomaco e molti politici hanno criticato questo impianto normativo definendolo non è equo. Perché secondo lei non è stata inasprita e corretta. Secondo lei non è più adeguata ai tempi moderni?
No, io ritengo che tuttora l’intero impianto normativo che prevede la possibilità di collaborare con la giustizia sia tuttora valido e debba essere mantenuto così com’è. Posso comprendere lo sconcerto dell’opinione pubblica, ma la mafia è un’organizzazione criminale così pericolosa ed insidiosa che sono necessari anche mezzi come quelli dell’utilizzo della collaborazione.
La mafia fa dell’isolamento e della chiusura verso l’esterno la sua forza: per superare tale forma di blindatura, la collaborazione è uno dei metodi ineliminabili. Non si può pensare ad inasprimenti, cioè a fare meno sconti. Il criminale deve essere invogliato a parlare, altrimenti non collabora! È uno scambio vantaggioso per entrambi.
Il collaboratore di giustizia sicuramente ci permette di scoprire retroscena diversamente insospettabili, ma oggi non si rischia che lo stato possa diventare garantista e permettere a chi si è macchiato di crimini indicibili di pianificare a proprio vantaggio il futuro?
La collaborazione dei criminali prevede uno sconto di pena, ma non l’eliminazione di qualsiasi conseguenza. Lo stesso Brusca 25 anni, cioè un quarto di secolo, li ha scontati e in carcere ha tenuto un comportamento ineccepibile.
Anche ora che è fuori, vivrà in una situazione controllata. Mi sembra assurdo pensare che una persona decida di commettere delitti così gravi, già prevedendo poi, dopo anni, di collaborare con la giustizia. La collaborazione è una decisione difficile, perché significa ‘rompere i ponti con il passato’, mettere i propri cari e sé stesso a rischio della vita.
È una decisione tormentata, che interviene in certi momenti. Non si può escludere che sia una decisione dettata anche da ragioni di convenienza, anzi una convenienza c’è sempre, ma, ripeto, è una convenienza che porta notevoli vantaggi anche allo Stato.
Perché oggi invece ci si lamenta della concessione dei benefici a Brusca?
Alla base della concessione a Brusca dei benefici per la sua collaborazione vi è un sistema di leggi che indubbiamente si sta mostrando funzionale (cioè efficace) rispetto al fine (cioè scoprire nuove formazioni di criminalità organizzata e smantellarle).
Non c'è dubbio che leggi di tal genere possano suscitare perplessità sul piano dei principi, non soltanto morali, ma, ribadisco ancora una volta, Giovanni Brusca la sua pena 'legale', inflitta da un Tribunale altrettanto 'legale', l'ha scontata interamente.
In realtà io penso che molte delle reazioni sdegnate alla condanna scontata da Brusca siano riconducibili ad una erronea concezione della pena, che sempre più spesso emerge nei dibattiti pubblici (ma anche nelle discussioni private tra amici): e cioè la pena viene intesa come vendetta. Vendetta della società, vendetta dei parenti delle vittime, vendetta dello Stato. E la sublimazione della vendetta qual è? È riassumibile in una frase molto semplice: "Buttiamo la chiave!".
La pena non può e non deve essere vendetta. La pena deve essere giusta: e nel caso di Brusca la pena giusta è stata quella di venticinque anni di reclusione, interamente scontati. Evidentemente, se il Tribunale ha inflitto quel tipo di pena, evidentemente ha tenuto in considerazione gli indubbi (ed accertati) vantaggi che la collaborazione di Brusca ha apportato allo Stato.
E allora venticinque anni è la pena giusta per il caso specifico.