Migranti: voci che sanno di silenzio
Quando pensiamo ai “migranti”, il nostro cuore è pervaso da due stati d’animo distinti, ma, che, purtroppo collimano: disperazione ed ipocrisia.
Sia dentro i confini nazionali, che a livello internazionale, gli uomini politici danno triste prova dei limiti che contraddistinguono la loro scarsa attitudine alla risoluzione dei problemi, e la loro dubbia moralità.
Nonostante, infatti, l’immigrazione sia “la sfida” del nostro secolo, la politica gioca al massacro sulla pelle di tutti, donne e uomini, dando vita all'unica pratica che conosce: la ricerca del consenso.
Purtroppo, senza distinzione di tendenza e o ideali.
Da sinistra, infatti, si sente un coro di voci uguali e impersonali che tendono, in modo semplicistico alla superficiale politica dell’accoglienza senza se né ma.
Appelli vani che, da un lato non danno alcuna prospettiva a coloro che imbarcandosi, nutrono – non tutti, per la verità - un sogno e dall'altro danno vita ad un vero e proprio mostro sociale: l’abbandono a loro stessi, dei migranti non appena raggiungono il suolo italico.
Con quale risultato?? Centinaia di persone che vagano nelle nostre città come fossero zombie, senza un obiettivo, ma che condividono la necessità cardine di ogni essere umano: vivere.
Per farlo si abbandonano ai loro istinti creando disagio e pericolo; spingendosi, spesso, tra le infide braccia della delinquenza organizzata.
Nonostante ciò risulta impossibile giudicare e giudicarli. Il motivo? Noi non abbiamo fame.
E la fame, per come è descritta nei libri e raccontata nei film, o nelle testimonianze dei nostri nonni, fa perdere tutti i riferimenti. Anche se questo non può legittimar il crimine. Mai.
Da destra, invece, la voce scandisce una solo esasperante concetto: basta migranti.
Che è un po’ come dire: fermiamo il mare con le mani. In due parole: semplicemente impossibile.
Sullo sfondo – e questa è la madre di tutte le colpe – il silenzio dell’Europa; acuita dall'ottusità della Francia, che fa all'Italia la morale salvo respingere i migranti, o costringerli - ma è solo un esempio - a condizioni di vita inumane sugli scogli a pochi chilometri da Ventimiglia, e dal beato isolazionismo dei Paesi del Nord. Egoisti e chiusi nel loro mantra: non è un nostro problema.
E allora, che si può fare?
Di certo nessuno ha la bacchetta magica.
Anche se una strada da percorrere ci sarebbe e si fonda su due principi semplici, ma, purtroppo, oggi, instabili: una politica che ripassi l’etimologia del suo essere per la gente, per lo sviluppo e per risolvere i problemi, e un’Europa che non si fondi sull'egoismo, e sull'assurda logica del profitto a tutti i costi, ma sulle esigenze dei cittadini.
Le circostanze di fatto, purtroppo, però, oggi, non ci spingono all'ottimismo, ma non ci devono spingere al menefreghismo.
Noi tutti, infatti, viviamo po’ come fossimo figuranti senza parte di un libro scritto da due mani incapaci; quella di una politica che è solo affannosa e stupida ricerca del consenso e quella di un’Europa lontana anni luce dalla gente.
Sapranno le nuove generazioni dare una scossa a questo immobilismo che paralizza il merito e la volontà di cambiare?
Lo sforzo è immane. Ma le sfida è da vincere.
Per farlo dobbiamo tornare padroni delle nostre vite, rifiutando il qualunquismo, e riconquistando, con la curiosità, il rimboccarsi le maniche e la sete di conoscenza, quello che i nostri nonni e i nostri genitori hanno saputo regalarci: il rifiuto del pensiero “piatto”, del “tanto non cambia nulla”.
Le generazioni che hanno ricostruito l’Italia nel dopoguerra non avevano nulla, avevano paura, ma non si auto commiseravano. Reagivano al suon di cinque parole, semplici e sincere: capire e non mollare mai.