Femminicidio: nuovo caso e io mi sono rotta proprio le palle
Odio i tg, ogni sacrosanta volta che decido di guardarne uno finisco col piangere. E’ vero che ho la lacrima facile ma il tg è veramente, seriamente raccapricciante.
Oggi nuovo caso di violenza sulle donne, o per lo meno, uno dei tanti che ogni giorno ci vengono a raccontare e quello che mi fa più incazzare è che sembra che invece di esser propedeutico, di portar a una vera e propria presa di coscienza di quanto questo problema sia vero e attuale, scateni solo di più un effetto a catena di simulazione. Sembra che ormai è così all’ordine del giorno che nessuno capisce davvero quanto questo faccia schifo e l’orrore nel vedere che sta diventando quasi una cosa normale.
Un’ossessione di un anno nei confronti di una donna. Se immagino cosa significhi vedo un uomo che vicino a lei si sente così forte, così potente, così indistruttibile che potrebbe fare qualsiasi cosa. Lo svegliarsi la mattina e vederla addormentata accanto: bocca socchiusa, respiro leggero, la linea dell’ascella che si protende verso quel braccio sollevato e piegato dietro alla testa. Fare la spesa insieme e dopo aver trovato finalmente le olive snocciolate tornar al banco salumi dove lei sta facendo la fila, sbirciarla un po’ da lontano, in mezzo agli altri e sentirsi l’uomo più fortunato della terra. Questo immagina la mia testa quando pensa a un uomo che ama, non a uno che ti segue in macchina mentre cammini verso casa e tutto d’un tratto prende un respiro, scala la marcia, accelera più che può e ti sbatte addosso, ti trascina ancora attaccata alla macchina e quando ti accasci a terra dietro di lui, ecco che mette la retro, ti ripassa sopra, poi ancora prima, sopra di nuovo e via. Mi viene da vomitare. Non è un eufemismo.
La gente forse non sa amare, perché sono convita che lui creda di amarla ma non capisce forse che questo è amare male, amare proprio male, questo è follia, questo è deleterio, per tutti.
Avevo un ragazzo cinque anni fa e lui mi amava, mi amava tanto ma mi amava male, mi amava proprio di merda. Quando eravamo insieme in mezzo alla gente lo sorprendevo a guardarmi con quell’aria di chi si compiace al sapere che ero sua, che avevo scelto proprio lui. Quando eravamo soli e magari volevo stare per conto mio, volevo studiare, volevo magari tornare a casa lui impazziva: lo faceva diventar matto l’idea di non stare con me. Allora mi stringeva, mi stringeva così forte da lasciarmi i lividi sui polsi, sugli avambracci, sulle cosce; segni che anche quando e se riuscivo fisicamente ad allontanarmi mi mantenevano vivo il ricordo di lui, marcavano i ruoli tra noi due. Era proprio così che lui spiegava gli ematomi sul mio corpo agli altri: “ma si, l’ho stretta un po’ troppo e, sai, lei è così delicata”. Già, perché delicate lo siamo davvero, come un petalo che se lo schiacci tra le dita cambia colore e poi marcisce. Beh, anche noi, a ogni segno ci marcisce un po’ qualcosa dentro.
Quella donna, quella a cui lui ha deciso bene di passar sopra con la macchina, era già stata in questura a chiedere aiuto e non so quanti di voi possano immaginare che cosa significhi. Innanzitutto c’è l’ammettere di avere un problema soprattutto per chi ci sta vicino, per chi ci vuole bene e tendiamo a proteggere, in secondo luogo di aver bisogno di aiuto e che questo è proprio per proteggerci da chi ci ama, figuriamoci ora arrivare perfino a denunciare il nostro “amore” alle autorità, allo Stato. Quando sei alle olimpiadi, a bordo vasca, ad esempio, sai che sei li ufficialmente come il miglior nuotatore di stile libero d’Italia, quello sarà il bollino sul tuo petto con po’ come la A scarlatta sul petto di Ester Prynne. Ora, denunciare il tuo ragazzo/compagno/marito/padre/cognato o chi per lui, significa appiccicargli addosso quell’etichetta di persona malata, violenta, di maniaco che non si toglierà più per tutta la vita. Questo è pesante. Anche se una parte di te dice che se lo merita, che in fondo quello è ciò che è, l’altra non vuole accettarlo e grida “magari cambierà” e in tutto questo non vorresti fargli del male.
Un giorno lui uscì di casa e io in lacrime, presa da una crisi di panico giravo per casa come una matta ammassando le mie cose in una valigia, chiamai un taxi. Ricordo che tremavo così tanto che quasi non riuscivo a chiudere la zip ma quella era la mia unica possibilità di andarmene e dovevo rimanere lucida. Mentre facevo tutto questo ero terrorizzata dall'idea che lui potesse tornare e trovarmi lì, così, che cercavo di scappare, cosa mi avrebbe fatto a quel punto? Chiusi la porta, pulsante dell’ascensore, quanto cavolo di tempo ci stava mettendo quel dannato ascensore? Corridoio, guardo la portinaia negli occhi con la mia faccia sconvolta e la saluto quasi fiera del mio dolore, testa alta e fiera della forza di andarmene che avevo finalmente trovato. Nei condomini tutti sanno sempre tutto di tutti e lei non poteva non sapere di me, di quello che mi succedeva ogni singolo giorno: quante notti ho gridato chiedendo aiuto quando lui mi spostava la mano dalla bocca, quante notti ho pianto ad alta voce sperando qualcuno avesse più forza di me e chiamasse la polizia.
Inutile da dire che nessuno ha mai fatto niente e la portinaia non poteva non sapere e mi guardava. Salgo sul taxi e via, chiamo i miei genitori per avvisarli che me ne ero andata di casa, che era tutto a posto e volevo solo star per conto mio qualche giorno, che non si preoccupino se avessero trovato il telefono spento e arrivo a casa di un mio amico. Ricordo la sua mamma che entra in camera mentre me ne stavo in penombra sul letto del mio amico con una camomilla in mano, mi accarezza i capelli e mi dice che ora è tutto a posto, che sono al sicuro e non riesco a smettere di piangere. Il pomeriggio mi portano in ospedale. Il caso ha voluto che quel giorno non avessi particolari ematomi ma il mio amico ha insistito perché io avessi un foglio, un documento che dicesse cos'era successo. Mi ricordo il poliziotto che mi avvicinò, lo fanno con tutte quelle che come me arrivano lì, e cominciamo a parlare. Non volevo dirgli nulla, non volevo né dirgli il suo nome, né il suo indirizzo: ero lì, a pezzi dopo mesi in quello stato e ancora non volevo ammettere che il mio uomo mi avesse fatto tutto questo e che passasse dei guai. Cioè, mi stavo seriamente preoccupando che non succedesse niente a lui. Una pazza.
Volete, però, sapere cosa fa più male di tutto? Tutto quello che non si vede. La paura di dire la frase sbagliata, di metter il pepe nella pasta o il limone nella macedonia, addormentarsi durante un film o voler studiare per un esame e poterlo fare solo dopo che lui si è addormentato. Smetti di esistere, smetti di aver sogni, obbiettivi perché la tua energia è per lui, te la succhia via tutta e ti lascia senza forze. Se penso a me quei giorni vedo ben poco di quello che ero prima e di ciò che sono diventata dopo. La tua testa arriva a pensare che quello che ti sta succedendo sia davvero colpa tua e che se sei tu la causa, beh, allora dovresti essere anche la soluzione. Così giorno dopo giorno vai avanti provandoci sempre più forte a non sbagliare, a dargli tutto l’amore che puoi aspettando il giorno in cui sarà diverso. Quel giorno non arriva mai.
Sapete cos’ho imparato da tutto questo? Che non cambia proprio niente. Avete presente quel film “la verità è che non gli piaci abbastanza”? La massima che il film ci passa è che noi siamo la regola, non l’eccezione e che se c’è una minima possibilità da qualche parte che le cose possano essere diverse, beh non sarà il nostro caso. Lui è una persona malata che a distanza di cinque anni spero si sia reso conto di aver un problema e si sia rivolto a una qualcuno competente in grado di aiutarlo davvero, io non ne sarei mai stata in grado e stavo solo distruggendo me stessa invece di far qualcosa di buono per lui.
Oggi io sono qui con la fortuna di potermi incazzare mentre una donna sta in un letto d’ospedale con le ossa in briciole come i biscotti sul fondo del pacchetto, l’anima a pezzi: non voglio nemmeno immaginare come stia il suo cuore in tutto questo. Perché quello che nessuno dice, di cui nessuno si cura sono le ferite sotto pelle, marchiate nella carne che non passeranno mai, mai. Come farà questa donna a camminare a bordo strada senza aver una crisi a ogni macchina che sente avvicinarsi? Come farà? Come farà a fidarsi ancora di un uomo? Per quanta confusione ci possa essere su sesso debole e sesso forte, soprattutto oggi, la verità è che noi abbiamo una forza dentro che ci rende quasi indistruttibili ma il nostro corpo, invece, è fatto di carne, è come il fiore di poco fa e per quanto possiamo cercar di far forza contro un uomo in generale potremo ben poco in questo senso. Come un vaso, un bel vaso di porcellana buttato a terra: per quanto lo si ricostruisce per bene, usando la colla più forte in commercio, perderà sempre almeno un po’. Un piccola gocciolina si libererà sempre e correrà lungo quei solchi lenta, poi più veloce fino a terra. Sono cose da cui non ci si può curare.
Per me oggi sono cinque anni e non passa giorno in cui io non riveda davanti agli occhi il suo viso tutto rosso, gli occhi sgranati, le mani che mi stringono e mi scuotono, che non senta il cattivo odore del suo respiro e le goccioline della sua saliva che mi colpiscono in faccia mentre lui urla, urla forte. Cinque anni: 365 giorni all’anno per cinque, fanno 1825 giorni e io sono ancora qui a piangere senza sosta ogni volta che sento il nuovo caso alla tv. Chi mi ridarà indietro tutto questo tempo? Chi pagherà per ogni volta che ho allontanato chi ha provato ad avvicinarmi per la troppa paura che possa insinuarsi per davvero nella mia vita e portarmela via un’altra volta? Nessuno mi ridarà tutto questo e come me a migliaia di donne ogni giorno.
Una ricerca dice che in Italia una donna su tre è stata vittima di violenza, ci stiamo rendendo conto dei numeri? Guardatevi intorno la prima volta che sarete in un luogo con tanta gente: una metropolitana, un autobus, un centro commerciale, guardate tutte quelle donne che vi saranno intorno e contate. Ogni tre di loro, una porta nel cuore queste ferite. Vi prego contate, usate le dita della mano e rendetevi conto che non bastano, realizzate quante siano e forse verrà la nausea anche a voi: noi, l’Italia, un Paese del Primo Mondo ma con abitudini che nemmeno gli animali a sangue freddo.
Vi ho raccontato la mia storia intrecciandola con quella di Stella, la donna che a Catanzaro, mentre sto scrivendo, sta lottando per la sua vita e ora vi chiedo, quanti sapevano di me e quanti di lei? Oggi 3 novembre qualcuno di lei avrà sentito parlare al tg ma, ad esempio, il 3 dicembre chi si ricorderà di lei? Di me invece pochi sapevano, perfino molti dei miei amici non potevano nemmeno immaginare una cosa del genere. Cosa sto cercando di dirvi con questo? Che siamo in troppe e che come noi ce ne sono a migliaia di cui nessuno sa, perché ci insegnano che la debolezza è motivo di vergogna, la violenza lo è ma il punto è che non siamo noi quelle che dovrebbero aver di che nascondersi. Uno schiaffo è grave. Una parola grossa è grave. Un qualsiasi motivo di mortificazione è grave e sappiate che se è successo una volta probabilmente succederà di nuovo, se non denunciamo siamo colpevoli anche noi, siamo complici di chi sarà libero dopo di noi di farlo di nuovo con un’altra donna. Non fate il mio errore, parlatene, non vergognatevi e fate qualcosa se non per voi, per quella che potrebbe esser vostra sorella, vostra figlia, vostra cugina.
Cara Stella, il mio pensiero da ieri è fisso su di te, forza. Sei stata forte fino ad ora, continua a esserlo, riprenditi la tua vita.
Un abbraccio
Nicoletta Crisponi
la prima fotografia è un lavoro del fotografo Jon Shireman, Broken Flowers