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Coronavirus: il racconto di Alessandro, docente a Pechino

docente pechinoIn un momento storico delicato, dove la lotta contro il coronavirus è entrata in una fase molta dura, il nostro essere italiani sta vacillando.

Siamo entrati in una fase di contrapposizione tra Nord e Sud, anacronistica e deleteria. Nel mare delle negatività, ecco la storia di Alessandro, docente di lingua e cultura Italia presso l'Università di Pechino in Cina.

Esempio di talento italiano, lontano dal nostro paese ma vicino al nostro momento di difficoltà.

Alessandro è in prima linea per parlarci di come la Cina sta reagendo all'emergenza del Coronavirus.

Chi è Alessandro? E da quanto tempo vivi in Cina?

Lavoro come docente di lingua e cultura italiana all'Università di legge di Pechino. Vivo in Cina da sei anni. Prima di metterci piede non avrei mai creduto che questo paese potesse piacermi. Ricordo ancora come fosse oggi il giorno in cui vidi un documentario in tv insieme a mio fratello che mostrava l'aspetto per me terrificante di enormi città lardellate da edifici mastodontici e orribili. “Che si tengano pure la loro crescita economica e due cifre, io in quel paese non ci metterò mai piede!”, dissi rivolto a mio fratello. Poi ottenuto il dottorato mi scontro con il mondo del lavoro italiano, stipendi ridicoli, costo della vita alto, impossibilità di una vita indipendente e nessuno che ti dia delle responsabilità per farti crescere umanamente e professionalmente. A quei tempi andavo spesso ad arrampicare e un giorno, fra i tanti incontri avuti nell'ambiente, un amico mi presenta un giovane connazionale sposato con una cinese che ha deciso di aprire una scuola di italiano in Cina, a Fuzhou. Mi propongono di lavorare da loro, una professione a cui da sempre aspiravo e così cominciò la mia avventura cinese. Fu amore a prima vista, ma non andò tutto liscio. Dopo cinque mesi tornai in Europa per stare con la mia ragazza di allora, che viveva a Berlino. Fui profondamente deluso dalla Germania e alla fine tornai in patria dove continuai a lavorare come insegnante di italiano pagato malissimo. Tuttavia la Cina era diventata un chiodo fisso, sentivo che non era ancora finita e così feci di tutto per tornarci. Il secondo incontro con questa straordinaria nazione non fu altrettanto piacevole. Questa volta ci tornai completamente solo e in un primo momento fu davvero dura, ma grazie ai miei studenti e alla buona volontà riuscii ad adattarmi. Durante le vacanze mi ritagliavo del tempo per viaggiare e conoscere meglio questo paese. Fra i tanti incontri, un giorno conobbi una ragazza che mi presentò a un amico responsabile dell'ufficio internazionale di un’università di lingue a Chengdu. In un primo momento fu un nulla di fatto, perché avevano già un insegnante di italiano, ma fortuna volle che dopo qualche mese quello stesso insegnante decise di lasciare quel lavoro dopo sei anni di servizio e così passai dalla scuola privata in cui mi trovavo, a un dipartimento enorme, con oltre trecento studenti di italiano. Fu un'esperienza indimenticabile. Restai a Chengdu tre anni, poi si presentò l’occasione di partecipare a un concorso, “Laureati per l'italiano”. Ebbi la fortuna di essere selezionato per l’università di legge di Pechino e così eccomi qua.

 

docente pechino2Come hai vissuto in Cina, il diffondersi del contagio?

Il 10 gennaio io e la mia ragazza partimmo per l'ennesimo viaggio in Yunnan, una regione nel sud della Cina che entrambi amiamo molto. In quei giorni si cominciava a parlare di questo virus, ma non faceva ancora paura, 14 casi in tutto, in una regione distante sia da Pechino che dai posti che intendevamo visitare. La situazione precipitò molto velocemente, ma non tanto da impedirci di concludere il nostro viaggio. Il 23 gennaio io e la mia ragazza ci separammo, lei sarebbe tornata dai suoi a Guangzhou per festeggiare insieme a loro la festa di primavera e io avrei preso un treno per Dali dove intendevo passare il resto delle vacanze con alcuni vecchi amici che vivono in questa cittadina. Nel giro di due giorni cambiò tutto. Dali è una città turistica, quindi era ovvio che se non avessero chiuso la città ci sarebbero stati una marea di contagi. Le autorità non persero tempo. Nel giro di poche ore fu chiuso tutto, negozi, siti turistici, autostrade e aeroporti. Inizialmente alcune guesthouse rimasero aperte, ma nel giro di tre giorni gli unici esercizi commerciali accessibili erano le farmacie e i supermercati. Eravamo perplessi e preoccupati, non si capiva esattamente cosa fosse questo virus, si diceva che la mortalità era del 2%, ma le misure adottate ci facevano pensare a qualcosa di molto peggio. Non si era ancora compreso che il vero problema fossero i ricoveri in terapia intensiva, o almeno noi non lo sapevamo. Io mi ero procurato delle mascherine in anticipo, quando ero ancora in viaggio con la mia ragazza. Fu una fortuna, perché nel giro di un giorno non se ne trovarono più. Inizialmente non fu imposta la quarantena, ma dopo due o tre giorni le autorità presero misure drastiche, fino al punto di costringerci a uscire a turno per andare a fare la spesa. Dovevo condividere il permesso di uscita con altre quattro famiglie presenti nella guesthouse dove vivevo, ma non ci furono per fortuna conflitti di alcun tipo. Ci organizzammo e a nessuno mancò mai nulla. Mia madre era terrorizzata e voleva che tornassi, ma osservate le misure prese dal governo, pensai che sarebbe stato molto più sicuro restare dove mi trovavo e così feci. Qui al sud non c'è riscaldamento. È inverno e mi trovo a duemila metri. La stanza dove dormo era gelida e la mia più grande paura era quella di buscarmi un malanno con qualche linea di febbre che mi avrebbe impedito persino di andare a fare la spesa, dal momento che controllavano la temperatura corporea ad ogni angolo della città e all'entrata dei supermercati. Niente stufe qui, cercai in tutti i supermercati della zona ma non ci fu nulla da fare. Alla fine mi convinsi ad andare in una città più grande qui vicino con una motoretta che avevo comprato in fretta e furia da una persona del posto. Nessun documento, solo un motore mezzo scassato e una sella su due ruote. Giunto a Xiaguan, finalmente trovai una stufetta, il prezzo era esorbitante. Quella stufetta fu la mia gioia più grande. La comprai senza pensarci. Sembrava di aver scoperto l'Eldorado. All’inizio il mio amico cileno, Carlos, veniva tutti i giorni a mangiare qui, si passava qualche ora insieme a fare due chiacchiere, ma un bel mattino ci fu vietato anche questo. Furono tre settimane surreali. Ogni giorno controllavo il numero dei contagi. Lo vedevo salire e ancora salire. Ma alla fine, dopo due settimane, il numero dei contagi si fermò a 13. La reazione tempestiva delle autorità aveva evitato il peggio e Dali divenne un'isola felice. Oggi tutto è stato riaperto, comprese palestre e alberghi. La vita è quella di sempre, ma senza turisti.

 

Hai avuto paura di rimaner in Cina?

Non andai mai nel panico, vivendo in Cina da sei anni ho imparato a fidarmi di questo governo. In caso di emergenza le capacità di intervento dell'apparato statale sono straordinarie. Conosco del resto la disciplina dei cinesi. Fin da subito ho tremato per l’Occidente, per me era chiaro che i sistemi democratici avrebbero incontrato più problemi nel gestire la situazione. Lo dissi anche a mia madre, “non temere per me, temete per voi stessi”. Sapevo che migliaia di stranieri erano scappati dalla Cina. Era inevitabile che il virus si diffondesse. Oggi i fatti mi danno ragione.

 

Cosa non ha funzionato in Italia rispetto altri paesi?

Penso che l'Italia abbia sottovalutato il problema. Sia la gente che il governo si sono trovati di fronte a una situazione inedita e l'irrazionalità l'ha fatta da padrone, sia fra coloro che sono andati nel panico, sia fra i non allarmisti. Ho molte studentesse cinesi che si trovano in Italia. Loro devono guardarsi non solo dal virus, ma anche dagli stessi italiani. Una mia studentessa è stata malmenata per strada perché indossava una mascherina. Tutto questo per me è vergognoso e sconcertante, tanto più raffrontando la gentilezza con cui sono stato trattato qui.

 

Cosa invece  ha funzionato in Italia meglio rispetto la Cina?

Mi spiace dirlo, ma in Italia nulla ha funzionato, se non la buona volontà di medici e infermieri. La sanità sta facendo il possibile, ma senza misure di contenimento decise non basterà. La gente sta dando il peggio di sé. Credo che questo terremoto sanitario dimostri chiaramente la fragilità della nostra società. Il libero mercato non ha bisogno di alcuna morale, il sistema gira anche se siamo tutti dei criminali. Ma una società non si può fondare solo sul benessere economico. In un caso come questo emergono tutte le fragilità intrinseche al nostro sistema. Di fronte al pericolo riscopriamo la nostra pochezza morale, la nostra mancanza di senso civico. Ormai il nuovo imperativo categorico è la felicità a tutti i costi e questi sono i risultati. Quando tutto finirà mi auguro che si avvii una riflessione seria su questi temi. È evidente che sia necessaria una riforma radicale a tutti livelli. 

 

Cosa ne pensi della psicosi e delle scene delle partenze da Milano verso il Sud?

La responsabilità è dei media e delle istituzioni in questo caso. Sono trapelate delle informazioni diffuse cinicamente senza pensare alle conseguenze. Il danno ormai è fatto e non mi è difficile prevedere che presto al sud sarà peggio che al nord, a meno che non si mettano in atto quarantene severe per coloro che si sono spostati dalla Lombardia verso altre regioni. Sinceramente sono molto pessimista. 

 

Come è la situazione in Cina?

L'emergenza in molte regioni e città è completamente rientrata, anche se sono ancora attive le quarantene per chi si sposta. Il livello di allerta è ancora molto alto, soprattutto nelle grandi metropoli, ma ormai siamo fuori pericolo. Al di fuori di Wuhan i nuovi contagi sono poco più di una manciata. Qui mi sento tranquillo, tutelato e al sicuro.

 

Cosa consigli agli italiani?

Il mio consiglio è di seguire le direttive e se possibile essere ancora più severi. Chi le ha, porti le mascherine, qui obbligatorie per entrare in luoghi pubblici come i supermercati. Chi può lavori da casa o insista con il proprio datore di lavoro per poterlo fare. In questi momenti bisogna portare pazienza, tutto si risolverà se la popolazione collabora, ma se si continua a far finta di nulla, sarà una tragedia. Le zone rosse sono più sicure delle altre, perché si sono già adottate misure più severe. Non tentate di fuggire, mettersi in viaggio è peggio sia per voi che per tutti coloro che incontrerete. In questo momento sospendete il giudizio per un po', evitate di incappare in logiche complottiste. Non è il momento di protestare è il momento di collaborare. Quando tutto sarà finito ricominciate le vostre lotte, oggi lottare e scendere in piazza significa compromettere il diritto alla salute del prossimo. Siate responsabili!

Le parole di Alessandro sono chiare: occorre responsabilità di tutti, l'invito è di uscire dal nostro orticello di benessere mentale costruito sull'egoismo e "ripensare alla collettività".

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