La Pittura di Mario Sironi al Museo del Novecento di Milano
Uno dei massimi esponenti della Pittura del XX secolo italiano è il protagonista della mostra allestita al Museo del Novecento di Milano.
Dal 23 luglio 2021 al 27 marzo 2022, nelle sale al pian terreno dell’Arengario, è possibile visitare una retrospettiva dedicata a Mario Sironi (Sassari, 1885 – Milano, 1961), in occasione dei sessant’anni dalla scomparsa del pittore. Curata da Elena Pontiggia e Anna Maria Montaldo, la mostra ospita oltre cento opere provenienti da varie collezioni italiane, tra cui alcune di proprietà dello stesso Museo del Novecento, provenienti dalla collezione Jucker, che esplorano la vicenda artistica di Sironi in stretta relazione alle sue vicende biografiche, saldamente legate al periodo storico in cui visse.
Mario Sironi nacque in Sardegna da padre lombardo e madre fiorentina, ma all’età di un anno, si trasferì a Roma con la famiglia. Dopo aver iniziato gli studi universitari di Ingegneria, li interruppe per dedicarsi alla Pittura, frequentando la scuola di nudo di Via Ripetta. In questo periodo, conobbe Umberto Boccioni, Gino Severini e Giacomo Balla, grazie ai quali, pochi anni dopo, nel 1913, sarebbe entrato nel Movimento Futurista, e, con loro, compì viaggi nel Nord Europa, che furono fondamentali per la sua formazione artistica. Allo scoppio della Grande Guerra, in seguito al suo fervido interventismo, si arruolò volontario nel Battaglione Ciclisti. Alla fine degli eventi bellici, sposò Matilde Fabbrini, dalla quale ebbe due figlie, e con la quale visse fino al 1930. Nel 1919, Sironi si trasferì a Milano, città che mai lasciò fino alla morte. Qui si dedicò a una Pittura di paesaggio urbano dai toni monumentali e classici, ma con una drammaticità tipicamente espressionista, frutto dei suoi viaggi in Germania all’inizio del decennio precedente. Nel capoluogo lombardo conobbe la sua prima grande critica, Margherita Sarfatti, che gli permise di esporre nelle gallerie cittadine. Nel frattempo, Sironi aderì al nascente fascismo, divenendo l’illustratore di punta del Popolo d’Italia diretto da Mussolini, con il quale collaborò fino al 1942. Nel 1922, fu tra i fondatori di Novecento, il movimento artistico nato dalla mente della Sarfatti, e si dedicò al paesaggio e al ritratto per tutti gli anni ’20. Con il decennio successivo, Sironi divenne il massimo esponente della Pittura murale ufficiale del fascismo e lavorò quasi esclusivamente ad affresco, come provano i suoi lavori alla Sapienza di Roma e a Palazzo di Giustizia di Milano. Dopo aver aderito alla Repubblica di Salò, il 25 aprile 1945 rischiò di essere fucilato, se non fosse stato per l’intervento di Gianni Rodari, partigiano ma suo estimatore. Gli ultimi anni della sua vita furono segnati da una grande angoscia legata, da un lato, al crollo degli ideali in cui aveva creduto, e, dall’altro, alla terribile vicenda del suicidio della figlia Rossana, insieme a una situazione di povertà.
Senza queste premesse, sarebbe difficile comprendere il percorso di mostra, parallelo nella scelta stilistica e biografica. La prima parte prende le mosse dai suoi esordi, ancora adolescente, in cui guardò al Simbolismo, al Liberty e al Divisionismo: notevoli sono l’ex-Libris Ars et amor, del 1901-2, in cui forte è l’eco di Beardsley e di Sartorio, ma anche La madre che cuce, opera legata allo stile di Previati e di Segantini. In questi anni, Sironi dovette convivere con frequenti crisi di depressione, dalle quali guarì anche grazie alla pratica pittorica e ai viaggi con gli amici Boccioni e Balla. Furono loro ad avvicinarlo a Filippo Tommaso Marinetti e al Movimento Futurista: la sua interpretazione di tale corrente, però, fu più volumetrica e monumentale, rispetto al dinamismo degli altri esponenti dell’avanguardia, come prova la Testa del 1913. Il Sironi futurista affrontò i temi cari al movimento, innanzitutto il dinamismo, preferendo, però, un soluzione più “plastica” e legata al paesaggio: prova ne sono i quadri in cui vengono raffigurati ciclisti ma anche, e soprattutto, camion, che divengono simboli del progresso e del nuovo che avanza contro il “passatismo”, per citare un'espressione contenuta nel Manifesto del Futurismo.
Dopo l’esperienza bellica, il suo stile iniziò a virare verso la Metafisica, allora rappresentata da Giorgio De Chirico e Filippo De Pisis, ma con una dimensione più umana e, ancora una volta, monumentale, classica, quasi preludio di quel “ritorno all’ordine” che sarebbe avvenuto durante gli anni ’20 per molti degli esponenti dell’avanguardia italiana. I temi furono ancora quelli futuristi, come ballerine di locali notturni, ciclisti e camion, ma, ora, intrisi di un nuovo lirismo e affiancati da manichini simili a quelli di De Chirico. Prova ne sono, di questa fase, segnata anche dall’incontro con la Sarfatti, Manichino, del 1919, ma anche Il camion giallo, autentica opera di transizione tra due momenti storici dell’Arte italiana. Dopo il suo trasferimento a Milano, Sironi virò su nuovi temi, come la rappresentazione di periferie spoglie e in divenire, accanto a quei tram in movimento che raccolsero l’eredità futurista. Le periferie di Sironi, nella loro grandiosità, rappresentarono una sintesi di varie, e opposte, tendenze, dal pessimismo figlio delle sue letture di Schopenhauer al nichilismo, dal grigiore tenebroso del colore alla volontà costruttiva tipica, ancora una volta, del Futurismo. Esse si configurarono come autentiche cattedrali laiche, imponenti ma simboliche nella loro essenza disadorna. Negli stessi anni, Sironi riprese a dedicarsi al ritratto, questa volta associato a figure volumetriche, come provato dalle bellissime Donne con vaso.
Nella seconda metà degli anni ’20, la plasticità della Pittura di Sironi tornò ad accentuarsi, in relazione al suo “ritorno all’ordine” dopo le prove futuriste e metafisiche, ma anche alla sua adesione a Novecento e agli ideali della Sarfatti. Le sue figure tornarono a essere influenzate dalla Classicità, affiancate da un disegno più fluido e da colori più intensi e pastosi. Tra i temi, continuò a lavorare a paesaggi urbani, ma iniziò a dedicarsi anche a raffigurazioni del lavoro quotidiano nei campi o a famiglie e maternità, diverse, dalle analoghe opere di artisti come Funi e Casorati, nella scelta di una collocazione del gruppo moglie-marito-figli o del lavoratore, in una dimensione indeterminata, sospesa nell’indefinito. Tali scelte tematiche furono anche frutto della sua adesione al fascismo, che vedeva, tra le sue basi, il lavoro contadino e manuale, nonché il nucleo della famiglia numerosa. I nudi, sia femminili che maschili, di questo periodo, sono immensamente statuari, con un che di rinascimentale, e sono, in un certo modo, eredi dei manichini metafisici, complementari alle scenografiche architetture degli sfondi. I paesaggi, invece, riflettono ancora la stagione precedente nella scelta tematica della veduta urbana con tram, ma acquisiscono una nuova carica cromatica, come provato dall’Aratura, del 1925-26, in cui il colore sembra quasi tornare al Giotto di Assisi, e non mancano nemmeno accenni all’Arte contemporanea francese, come in Paese nella valle, del ’28, opera in cui l’eco dei fauves di Derain è fortissimo.
Con gli anni ’30, prima di abbandonare il cavalletto per dedicarsi alla fredda monumentalità ufficiale della Pittura fascista, Sironi affrontò anche una crisi espressionista che manifestò con opere drammatiche, dalle pennellate violente e dai tratti nervosi, eredi, in un certo qual modo, di Schiele e Kokoschka: quanto di più lontano dagli ideali plastici e classici di Novecento! Tra il 1929 e il ’30, Sironi realizzò nudi femminili in pose disperate, quasi strazianti, calate in paesaggi desolati il cui unico elemento di definizione è un rovo spoglio. La crisi, però, durò solo un anno: infatti, con la fine del 1930, il pittore tornò a raffigurazioni più ferme e monumentali, preludio della grande stagione decorativa murale, che lo avrebbe caratterizzato, come massimo esponente della Pittura del regime, nei successivi dieci anni, fino allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale.
Con la Liberazione, nel 1945, il fascista mai pentito Sironi (non si ravvide nemmeno davanti all’orrore delle leggi razziali del ’38 e, anzi, si arruolò tra i repubblichini durante la Guerra), vide il crollo di tutto ciò in cui aveva creduto. Venute meno le committenze pubbliche, l’artista rischiò la fucilazione. Poco dopo, avvenne una disgrazia che gli fece cadere il mondo addosso: l'amata figlia Rossana si suicidò nel 1948 a diciotto anni. In preda a una crisi esistenziale, tornò a dipingere al cavalletto, raffigurando scene drammatiche, figlie della sua angoscia, ma ancora legate alla Metafisica, con manichini collocati tra cumuli di macerie, oppure con anime dannate nell’oltretomba. Il decennio 1950-61, per Sironi, fu un periodo di estrema solitudine, in cui riprese le varie fasi artistiche della sua vita, dal Futurismo alla Metafisica e alla monumentalità dei suoi affreschi. La conclusione della mostra è affidata a due opere dipinte nel 1961: una con una rappresentazione dell’Apocalisse calata in una dimensione di desolazione e distruzione totale, e L’ultimo quadro, un paesaggio urbano disorientato che è stato ritrovato sul cavalletto dopo la morte del pittore e che intende essere quasi un testamento dell'artista.
Mario Sironi. Sintesi e grandiosità.
Museo del Novecento, Piazza Duomo 8, Milano
Orari: martedì – domenica 10.00-19.30, lunedì chiuso
Biglietti: Intero 10,00 €, ridotto 8,00 €
Info: https://www.museodelnovecento.org/it/mostra/mario-sironi