Sistema Pensionistico italiano: una bomba ad orologeria
Rischio di pensioni minime future da 341 euro mensili a fronte di pensioni d’oro da decine di migliaia di euro: gli eccessi di un sistema insostenibile.
Secondo gli ultimi dati del bilancio sociale dell’ISTAT, attualmente in Italia “oltre 2,1 milioni di pensionati (il 13,4%) hanno un reddito inferiore ai 500 euro mensili; il 43,5% non arriva a 1.000 euro al mese; quasi il 70% riceve un assegno inferiore ai 1.500 euro al mese; il 13,7% percepisce tra 2000 e 3000 euro, mentre la quota di chi supera i 3.000 euro mensili è pari al 5,6% (di cui: 4,3% tra 3.000 e 5.000 euro; 1,3% oltre 5.000 euro)”.
Si tratta di numeri che non ammettono interpretazioni fantasiose: appare evidente come gli importi degli assegni in questione siano stati calcolati secondo logiche ispirate alla salvaguardia delle casse pubbliche piuttosto che a criteri di welfare. Costituiscono, infatti, solo una sparuta minoranza coloro che riscuotono pensioni in grado di assicurare una vita dignitosa e serena; al contrario, la stragrande parte dei pensionati arriva a fine mese con difficoltà, mentre più di due milioni di persone sono condannate ad una problematica soglia di pura ed incerta sopravvivenza, con cifre che - non raggiungendo neppure i 500 euro mensili - definire “esigue” rappresenta un eufemismo.
Ma c’è di più, perché - a voler prescindere dall’eventualità che la tanto attesa ripresa economica ci sia o meno - è ormai alle porte il rischio di un ulteriore, drastico (ed anche generalizzato) impoverimento sociale, il quale lascerebbe indenne soltanto una ristretta élite di superbenestanti che nel passato sono riusciti ad accumulare, a vario titolo, patrimoni di notevole consistenza, assicurandosi diritti, posizioni di rendita, nonché privilegi, di ogni genere e specie.
L’OCSE ha stimato che la spesa pensionistica nel nostro Paese è destinata ad aumentare, tanto nel breve quanto nel lungo termine, fino al 14% del PIL nell’anno corrente, per arrivare al 15,7% nel 2050, ma con un tasso di crescita in decisa controtendenza rispetto ad altri stati europei, come ad esempio il Lussemburgo (con previsioni di incremento futuro fino al 18% del Pil), il Belgio (fino al 16,7% del PIL), la Spagna (fino al 14% del PIL, con un innalzamento percentuale di 4 punti rispetto ai dati precedenti).
In definitiva, mentre in Europa la spesa per le pensioni crescerà ad un ritmo sostenuto, in Italia crescerà meno, anche se le peculiarità del nostro sistema previdenziale non hanno impedito nel 2011 all’Italia di risultare al primo posto tra i Paesi Ocse per l’entità della spesa pensionistica in rapporto alla spesa pubblica, con una percentuale del 31,9%, poco meno del doppio rispetto alla media, motivo per il quale l’Ocse stesso preme oggi sui nostri organi di governo affinché siano attuate riforme in grado di operare tagli sui costi senza impoverire i redditi pensionistici, creando all’interno del settore previdenziale una condizione di sostenibilità.
A fronte di questa situazione, quasi a confermare le innumerevoli contraddizioni del nostro sistema, l’ISTAT riconosce che gli assegni pensionistici degli Italiani sono troppo bassi, probabilmente i più bassi d’Europa, in pieno e stridente contrasto con le “pensioni d’oro” di una casta di intoccabili, che, viaggiando al di sopra dei 90.000 euro lordi annui, pesano ogni anno sulle finanze pubbliche per un totale di 3,3 miliardi di euro.
Verrebbe da chiedersi, a questo punto, quali ingenti contributi certi “fortunatissimi” pensionati abbiano corrisposto durante la loro vita lavorativa per poter godere di un trattamento pensionistico assolutamente invidiabile, ma, a ben vedere, si tratta di pensioni liquidate con il famigerato “sistema retributivo”, grazie al quale, ad un determinato ammontare di contributi versati, sono state ricollegate prestazioni previdenziali largamente maggiorate, non revisionabili, non ulteriormente tassabili, giuridicamente “blindate” come “diritti acquisiti”, e dunque inattaccabili.
Sul versante opposto delle “pensioni minime” si riscontra il recente studio dell’Inps che ha prospettato un altissimo rischio di povertà per i futuri pensionati. Attualmente la pensione minima è di 502,00 euro, e l’eventuale mancato raggiungimento di tale importo fa scattare un meccanismo integrativo a carico dello Stato. Nella eventualità che detta integrazione dovesse saltare, il dipendente che “maturi 1.000 euro netti” potrebbe trovarsi a riscuotere una pensione di 408 euro; l’autonomo di soli 341 euro.
Queste le allarmanti previsioni rese pubbliche dall’Istituto Nazionale di Previdenza Sociale, elaboratesulla base di modelli virtuali e relative proiezioni; ma l’incertezza su come realmente andranno le cose regna sovrana, al di là delle formali quanto vuote “rassicurazioni di circostanza” dell’attuale dirigenza politica. Non c’è dunque da meravigliarsi se viene messa in dubbio la sostenibilità delle future pensioni, con tutti i rischi annessi e connessi ad un potenziale collasso sistemico.
La necessità impellente di correggere certi “squilibri” esclude oggi la possibilità di ulteriori indugi e perdite di tempo: si impone un urgentissimo intervento di autentica giustizia sociale, posto che gli organi preposti alla funzione legislativa, tra risse di partitoe battaglie in difesa degli interessi corporativistici, trovino tempo e serenità (ma soprattutto voglia e buon senso) per occuparsi seriamente di una questione economico-sociale così esplosiva!
Fonti: ISTAT, Annuario Statistico Italiano 2014 - OECD Pensions Outlook 2014 su pensioni – Bilancio sociale Inps 2014