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I lati oscuri di un mondo scintillante. Tra moda, sfruttamento e scarsa qualità del prodotto e della vita

sfruttamento-modaLa puntata di Report andata in onda domenica scorsa ha lasciato dietro di sé una scia d'indignazione e incredulità.

Quello che ha maggiormente colpito le coscienze di tutt'Italia, sono state le immagini di centinaia di indifese oche spennate vive e ferite, per una causa tutt'altro che buona: fornire piumaggio per i nostri caldi piumini e giacconi invernali.

Ma c'è ben altro, nel servizio di Report, che dovrebbe darci da pensare e provocare la nostra più grande indignazione.

Ed è la quasi totale indifferenza al made in Italy da parte dei marchi di lusso nel settore della moda. 

Perché diciamoci la verità: se io compro un capo d'abbigliamento a pochi euro presso una catena di moda low cost, non posso certo aspettarmi che la mia giacca, la mia gonna o la mia maglietta siano stati fatti e fabbricati dietro casa, che il materiale sia di prima qualità e che l'operaio che ha composto il pezzo sia stato pagato profumatamente.

Ma quando i prezzi iniziano a salire e raggiungono anche il migliaio di euro, ci è difficile pensare che le materie prime siano scarse, e che il nostro giaccone sia stato fabbricato dall'altra parte del mondo per pochi euro. 

Eppure è proprio questo che Milena Gabanelli e i suoi reporter hanno dimostrato domenica sera, svendo i "lati oscuri di un mondo scintillante".

Il marchio che si è trovato maggiormente sotto tiro è Moncler, in mano a Remo Ruffini.

Durante il servizio di Report sentiamo Ruffini parlare di made in Moncler, e dichiarare: "Il made in Italy è un concetto che non mi appartiene. Non mi interessa proprio come marchio. La produzione per essere buona non ha bisogno di etichette".

Concetto anche condivisibile, se non fosse che poi vediamo piumini Moncler prendere forma in luoghi non certo noti per la qualità di produzione.

Nel caso di questi grandi marchi, tra cui vengono citati anche Prada, Aspesi e Peuterey, il luogo prescelto è l'Europa dell'est

E sembra chiaro fin da subito che il motivo per cui Armenia, Romania, Repubblica Moldava e Bulgaria producono i capi del lusso, non sia certo per "la migliore qualità ed esperienza" (dice Ruffini) che là si trova, bensì per i prezzi con cui Moncler o chi per lui può vedere un suo capo finito. 

E si tratta di una vera e propria corsa al prezzo più conveniente, un tour tra gli stati dell'est che offrono il prezzo migliore.

Uno dei luoghi di maggior produzione, almeno in questo momento, risulta essere la Transnistria, di cui la maggior parte di noi certamente, prima del servizio di Report, nemmeno ne conosceva l'esistenza.

Si tratta di uno stato auto-proclamato facente parte della Repubblica di Moldavia, un territorio nemmeno riconosciuto dalle Nazioni Unite ma, come dice la Gabanelli, conosciuto molto bene dai signori del lusso.

Luogo dove "si abbassa ancora di più l'asticella del prezzo e della dignità", e dove i giornalisti non possono entrare.

Ben accolti invece i turisti leninisti, e soprattutto gli uomini d'affari. Affari che in Transnistria sono, per l'80%, italiani. 

Per farci un'idea dei prezzi, per un giaccone, con tutto il lavoro che esso richiede, un dipendente prende tra i 18 e i 30 euro, in  base alla difficoltà del modello, e lo stesso giaccone viene rivenduto in Italia e nel mondo a quasi 2.000 euro.

E in certi casi, come si sente dire durante il servizio, le grandi case di moda, e nel caso specifico viene citato Prada, vorrebbero che i prezzi scendessero ulteriormente.

Insomma, un vero e proprio tiro alla fune per il prezzo più stracciato possibile, con un ricarico poi, sulla vendita al cliente, che dire impressionante è dir poco.

E dunque non stupisce la scelta di snobbare il made in Italy, che richiederebbe, su ogni capo, all'incirca soltano 20 o 30 euro in più rispetto alla concorrenza est-europea.

Troppi evidentemente, secondo i grandi del lusso, se calcolati su un numero elevato di capi.

Ma Report e quanto spiegatoci dalla Gabanelli e dai suoi collaboratori domenica scorsa è purtroppo solo una goccia in mezzo al mare di tutto lo sporco che vi è dietro ai capi che quotidianamente indossiamo, compresi, ovviamente, i low cost che, diciamoci la verità, sono poi quelli che la maggior parte di noi acquista.

Ecco altri lati oscuri dei nostri vestiti colorati e scintillanti:

Il 24 aprile del 2013 Il Rana Plaza, una palazzina di otto piani a Savar, in Bangladsh, è crollato

Con lui, si sono spente 1.129 vite, e sono rimaste ferite 2.515 persone. Persone che stavano lavorando, per produrre i capi d'abbigliamento che poi noi avremmo indossato.

Come ci dice un foto-documentario di Ismail Ferdous, che ricostruisce la vicenda per New York Times, in Bangladesh circa 4.000.000 di persone lavorano nell'industria d'abbigliamento, tra cui una maggioranza di donne.

Un pezzo d'economia importante, per il Paese, se non fosse per le condizioni a dir poco precarie dei lavoratori, che hanno come salario minimo 68 dollari al mese - che spesso sono molti meno - e che non raramente lavorano in condizioni di sicurezza inconcepibili.

E lo dimostra il Rana Plaza, che ha lasciato numerose vite sotto le sue macerie. I sopravvissuti rimangono volti e storie anonime, dietro al silenzio e ai maglioni che indossiamo. 

La vicenda è risorta in questi giorni perché, a distanza di un anno e mezzo, le famiglie delle vittime e i feriti non sono stati risarciti, e pare che i passi verso il miglioramento delle condizioni lavorative in Bangladesh siano ancora molto pochi.

(Siamo certi che avrete interesse nel fare una ricerca sul web per trovare i marchi che producevano i propri capi d'abbigliamento all'interno della palazzina in questione).

Recente è la notizia, dataci dal Corriere, di quelle magliette utilizzate dai leader politici britannici a favore dei diritti delle donne.

Cosa sta dietro agli slogan "This is what a feminist looks like", e a quelle magliette vendute a 57 euro al pezzo?

Secondo alcune indagini del Daily Mail, quotidiano britannico, le operaie che producono quelle magliette lavorano su un isola delle Mauritius, nell'oceano Indiano.

E lavorano per 62 centesimi di sterlina all'ora, ovvero 80 centesimi di euro, per farci un'idea.

E non basta: il Daily Mail ci dice che le operaie di quest'azienda (una delle sei che fabbrica le magliette incriminate), dormono in 16 in una stanza, e il loro stipendio si aggira intorno agli 80 euro al mese.

Come a dire che i lati oscuri dietro allo splendido mercato della moda - e non solo - non finiscono mai, e bastano poche e veloci ricerche sul web per capire che non è tutto oro quello che luccica.

Clara Cappelletti

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