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Le donne dell’Arte tra ‘500 e ‘600 in mostra a Palazzo Reale

La Pittura, soprattutto nell'epoca barocca, è stata anche Donna. In un mondo da sempre appannaggio maschile, a cavallo tra la fine del secolo XVI e l’inizio del XVII, emersero anche alcune figure femminili che lasciarono un segno indelebile nella Storia dell’Arte.
Elisabetta Sirani, Cleopatra, 1664, Collezione Privata

A loro è dedicata la mostra Le signore dell’Arte, a Palazzo Reale di Milano, dal 2 marzo al 25 luglio 2021. Nelle sale del piano nobile del palazzo del Piermarini, sono ospitate circa centotrenta tra tele e altri manufatti, opere di donne che lavorarono nel mondo dell'Arte tra la fine del ‘500 e il ‘600. La mostra è curata da Anna Maria Bava, Gioia Mori e Alain Tapiè, e ha il pregio di far emergere, nel panorama artistico manierista e barocco, alcuni nomi femminili di rilievo, riscoperti solo qualche decennio fa, accanto ad altri quasi sconosciuti, ma con il minimo comune denominatore di aver contribuito all'affermazione delle donne in un universo, allora, ancora quasi totalmente maschile. La mostra è concepita come un percorso non tanto cronologico, quanto tematico e “per nomi”, con sezioni dedicate, ognuna, a un gruppo di donne creatrici d’Arte. E, oltretutto, si tratta di una grande occasione per osservare, da vicino, capolavori quasi sconosciuti esposti, per la prima volta, a una mostra. Ogni sezione mostra non solo gli aspetti biografici della pittrice/artista in questione, ma ne evidenzia anche l’abilità compositiva, contestualizzando la sua vicenda nel periodo in cui visse e operò, con l’obiettivo di dimostrare come l’espansione della creatività femminile nell'Arte del Seicento non fu un episodio da caleidoscopio, ma un fenomeno che abbracciò tutta Italia, con strascichi anche Oltralpe e, addirittura, Oltremanica, come dimostra il soggiorno londinese di Artemisia Gentileschi.

02 fede galizia giuditta con la testa di oloferneDonne intraprendenti e indipendenti, orgogliose di esserlo e di dimostrarlo, pur essendo, quasi sempre, figlie, sorelle o parenti di grandi pittori e artisti. Ecco lo spirito delle Signore del Barocco. Il primo nome di rilievo che emerge, in mostra, è quello di Sofonisba Anguissola (1532/35 – 1625), pittrice cremonese, figlia di una delle famiglie più in vista della città che, in virtù dei rapporti epistolari tra il padre Amilcare e Michelangelo, stando a quanto ci racconta Vasari, spinse il Buonarroti a interessarsi ai disegni di Sofonisba. La pittrice, lasciata Cremona, visse, prima, a Madrid alla corte di Filippo II, poi in Sicilia, dove sposò il nobile Fabrizio Moncada, quindi a Genova, dove ebbe un secondo marito, della casata dei Lomellini, e, infine, di nuovo in Sicilia, a Palermo, dove Anton Van Dyck la ritrasse morente a novantanni.

Di Sofonisba sono esposti ritratti, come quello intensissimo nella ricerca psicologica, del Canonico Lateranense, ma anche scene di genere, come la Partita a scacchi, in cui la pittrice ritrasse se stessa e la sorella Lucia, anch'essa pittrice. La vera chicca, però, è la tela raffigurante La Madonna dell’Itria, eseguita dalla cremonese negli anni in cui visse accanto al primo marito nel palazzo nobiliare dei Moncada a Paternò, ai piedi dell’Etna. La pala d’altare risale al 1578/79 e si trova, ancora oggi, nella chiesa di Santa Maria dell’Alto nella cittadina catanese e, per l’occasione della sua prima uscita dalla Sicilia, è stata restaurata, come documentato da un video esplicativo in sala. L’opera è fortemente autobiografica, in quanto, in primo piano, raffigura la scena sacra secondo i canoni della Pittura manierista cremonese dei Campi e di Boccaccio Boccaccino, maestri di Sofonisba. Il volto di Maria è un autoritratto, mentre, sullo sfondo, appaiono delle navi, palese citazione alle ultime vicende di Fabrizio, morto durante un’ incursione piratesca. Successivamente, troviamo un’altra chicca, opera della pittrice fiorentina Lucrezia Quistelli, formatasi nella bottega dell’Allori: si tratta di un’artista quasi sconosciuta, della quale ci è nota solo la pala d’altare esposta in mostra, proveniente dalla chiesa parrocchiale di Silvano Pietra, nel Pavese, in cui notiamo ancora forti echi della Pittura non solo del maestro, ma anche del Bronzino e del Pontormo. 

La seconda sezione è dedicata ad artiste che si diedero alla religione e alla vita monastica e che, in virtù di ciò, continuarono, dal convento, a eseguire lavori artistici. Tra queste, spicca Orsola Caccia (1596-1676), originaria di Moncalvo, nel Monferrato. Suo padre era Guglielmo Caccia, detto il Moncalvo, attivissimo a Torino accanto agli Zuccari alla corte sabauda ma anche a Milano e nella Lombardia spagnola come pittore di pale d’altare. Orsola entrò in convento a 24 anni con il nome di Maddalena: dal monastero, continuò a lavorare a opere, soprattutto sacre, pregne di misticismo, al limite dell’ex-voto, ma anche memori della lezione paterna e del primo Seicento milanese, come prova la grande tela per la parrocchiale di Moncalvo, oppure di ricordi genovesi, come le Sibille esposte in mostra. Degna di nota è anche Lucrina Fetti, sorella del più famoso Domenico, di origini romane ma mantovana d’adozione, della quale è esposto il bellissimo ritratto di Eleonora Gonzaga.

Nella terza sezione, spiccano le pittrici che lavorarono a stretto contatto con i padri, mariti e fratelli pittori. Le due storie più importanti ci portano a Bologna, dove due donne contribuirono alla nascita di quel classicismo che fu marchio di fabbrica della “Felsina pittrice”, come ebbe a chiamare la scuola bolognese Giulio Cesare Malvasia, accanto a nomi come Guido Reni, i Carracci, Guercino e Francesco Albani: parliamo di Lavinia Fontana ed Elisabetta Sirani. La prima (1552-1612) si formò nella bottega del padre Prospero, e raggiunse, ben presto, una fama notevole come ritrattista, ma anche come autrice di monumentali pale d’altare, come prova quella, in mostra, destinata alla Basilica bolognese dei Servi. Lavinia fu donna intraprendente, forse la prima vera pittrice barocca in Italia, con opere ricche sì di introspezione psicologica, ma anche di una carica sensuale figlia dell’estetica del tempo e segno, molto chiaro, del superamento, in terra emiliana, dei canoni controriformistici. La Fontana fu anche una delle prime pittrici a esplorare il fenomeno naturale, come provano le sue scene bibliche, ispirate alle prove di Sofonisba Anguissola, ma anche ai contemporanei lavori dei Carracci, e il bellissimo San Francesco in atto di ricevere le stimmate, all’interno di un paesaggio quasi di ricordo leonardesco. Dei suoi ritratti, degno di nota è quello dell’erudito veneto Carlo Sigonio, giunto a Bologna come professore all’Alma Mater, uno degli uomini più in voga del suo tempo, in città. Lavinia passò gli ultimi anni della sua vita a Roma, dove la volle Gregorio XIII, lavorando soprattutto a opere per le chiese dell’Urbe.

Elisabetta Sirani (1638-65), invece, ebbe vita più breve, ma fama altrettanto significativa, tanto da superare, in soli dieci anni di attività, il padre Giovanni Antonio, e da essere sepolta, accanto a Guido Reni, nella Basilica di San Domenico a Bologna. Elisabetta fu figura straordinaria, specie per la tecnica pittorica decisamente inconsueta, ottenuta abbozzando con veloci pennellate i soggetti, poi perfezionati ad acquerello, fino a ottenere una resa fortemente plastica. La Sirani visse gli anni d’oro della Felsina Pittrice, lavorando accanto a Reni, Albani e Guercino, e segnando il modo significativo l’eredità che, di lì a qualche anno, avrebbero raccolto Marcantonio Franceschini e Donato Creti, nella prima metà del Settecento. Nelle opere di Elisabetta, la sensualità è ancora più accentuata, rispetto alle opere di Lavinia Fontana, e sfocia in un sottile erotismo, come provato dalla stupenda Cleopatra. Elisabetta, da buona pittrice barocca, è estremamente attenta sia al dettaglio giocoso e scherzoso, come provato dal Cupido che si batte la testa con le mani per aver sbagliato obiettivo in Venere e Amore, ma anche, e in ciò fu rivoluzionaria, alla raffigurazione del coraggio femminile di fronte alla prepotenza degli uomini, anticipando, quindi, temi tipici di Artemisia Gentileschi: ne sono prova sia la Porzia che si ferisce una coscia, ma anche l’episodio, narrato da Plutarco, di Timoclea che, reduce da uno stupro da parte di un capitano macedone, lo inganna, gettandolo in un pozzo e lo uccide lapidandolo per vendicare l’onta subita.

Un’altra tematica di questo tipo, e simbolo del riscatto femminile, è la vicenda di Giuditta e Oloferne: Elisabetta Sirani la tratta con una verve quasi esotica, con l’eroina ebraica raffigurata come una principessa orientale, mentre più casto è il soggetto trattato dalla milanese Fede Galizia, artista su cui si hanno poche certezze biografiche, ma che, di certo, fu una figura di spicco nel panorama pittorico milanese negli anni dei Borromeo. Figlia di un miniaturista trentino, Fede si avvicinò alla Pittura con scene sacre e pale d’altare, anche se la sua fama si affermò nel ritratto, fortemente fisiognomico e attento al dettaglio e agli aspetti legati alle novità scientifiche del tempo. Questa caratteristica segna anche la sua Giuditta, in cui Fede pare più attenta al dettaglio dei pizzi e delle perle della donna che alla vicenda storica dell’eroina liberatrice del popolo ebraico.

Segue una sezione dedicata a nomi minori ma altrettanto significativi, a partire da Rosalia Novelli (1628-post 1689), pittrice palermitana figlia del maggiore artista barocco siciliano, Pietro. Rosalia seguì le orme del padre e dipinse soprattutto opere destinate alle chiese di Palermo: sono messe a confronto due pale d’altare, una di Pietro e un’altra di Rosalia, proveniente dalla chiesa di San Matteo al Cassaro e raffigurante Lo Sposalizio della Vergine. L’opera di Rosalia, pur nella monumentalità dello sfondo architettonico con colonnine tortili, ha un tocco molto naturalistico, mentre ancora puramente chiaroscurale e tenebrosa è la pala di Pietro. Un altro nome di rilievo è Margherita Volò Caffi (1648-1710), pittrice milanese, figlia di un artista francese, che si specializzò in raffigurazioni di vasi di fiori, insieme alle due sorelle: degna di nota è la raffigurazione, destinata alla devozione privata, di una piccola scena sacra, opera di Federico Ferrari, artista che introdusse il Settecento a Milano insieme a Filippo Abbiati, incorniciata da una ghirlanda di fiori di Margherita.

L’ultima sezione è dedicata alle prime donne che entrarono nelle Accademie pittoriche, soprattutto nella Roma della prima metà del Seicento. Tra queste figurarono le già citate Lavinia Fontana ed Elisabetta Sirani, ma anche personaggi come Virginia Vezzi, che, in Accademia di San Luca, conobbe il suo futuro marito, il francese Simon Vouet: con lui collaborò per tutta la vita, prima, a Roma, nella campagna decorativa in San Lorenzo in Lucina e a soggetti mitologici e storici, e poi in Francia, dopo il suo ritorno oltralpe, dove morì nel 1638. Virginia realizzò opere influenzate dalla luce caravaggesca ma anche dal classicismo del marito. 


Artemisia Gentileschi, Maria Maddalena, 1630-31, Beirut, Collezione Sursock

La conclusione del percorso è affidata a Lei, l’Artista per antonomasia del Seicento europeo, Artemisia Gentileschi, la prima pittrice a denunciare uno stupro da parte di un collega e la prima a evidenziare, nella sua Pittura, un trauma che la segnò per tutta la vita. Di Artemisia si vuole sottolineare la carica sensuale, ma anche la femminilità con cui, per tutta la sua produzione, tracciò le sue eroine. La sua Pittura è realistica ma anche simbolica: basti pensare alle sue raffigurazioni di Giuditta e Oloferne, che sono trasposizioni del trauma psicologico seguito al dramma della violenza subita. La chicca finale della mostra è opera sua: la Maddalena Sursock, del 1630-31, recentemente riassegnata dalla critica al suo catalogo. L’opera, intensa nella caratterizzazione del personaggio, con colori smaglianti, è ascrivibile al periodo napoletano di Artemisia e raffigura un momento particolare, quello del passaggio dalla dimensione terrena (raffigurata dai vasi e dagli unguenti sullo sfondo) all'estasi mistica. La tela, di proprietà dei Sursock, una delle famiglie più in vista del Libano, è stata fortemente danneggiata durante l’esplosione del porto di Beirut nell'estate dello scorso anno ed è esposta, per la prima volta, prima di essere sottoposta a un restauro che, si spera, possa ricondurre all'antico splendore un’opera che rappresenta anche un lascito da parte di un’artista che fece da modello e fonte d’ispirazione per tante pittrici che, dopo di lei, segnarono la Storia dell’Arte, da Rosalba Carriera ad Angelica Kaufmann.

Le signore dell’Arte. Storie di donne tra ‘500 e ‘600
Palazzo Reale, Piazza Duomo 12, Milano
Orari: lunedì chiuso; martedì – mercoledì – venerdì 10.00-19.30; giovedì 10.00 – 20.30
Biglietti: intero 14,00 €; ridotto 12,00 €

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